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  • Immagine del redattoreRiccardo Vincenzo Spinelli

Processo di costing e limiti del "costo pieno"

Un cambiamento di metrica indotto dallo scenario



L’attuazione di un sistema di determinazione dei costi rientra in quelle attività di natura tattica a valenza strategica per l’impresa e che consente – analizzata e pianificata l’attività di marketing operativo (1) – di (ri)disegnare un modello di gestione orientato al presidio del rischio in chiave proattiva, partendo dalla discriminante del prezzo.


Fin d’ora pertanto, sia sulla scorta delle spinte normative - CCII (2) - e di orientamenti sovranazionali, nati allo scopo d’indurre le imprese a sposare modelli predittivi e prognostici in chiave economico-finanziaria, che in presenza di cicli macroeconomici sempre più brevi e incerti, appare di tutta evidenza – PMI in testa – la necessità di interrogarsi e analizzare quale rappresenti per l’impresa la più coerente e duttile metodologia di “costificazione” dei prodotti/servizi, tale da configurarsi come anticiclica (3) e capace di interpretare le esigenze di cambiamento nei modelli di business.


Vorrei qui pertanto indagare quali a mio parere i limiti del costo pieno (full cost), rapportandosi alle diverse configurazioni di costo applicabili e giustificando l’una rispetto all’altra su basi oggettive.


Premesso che

  • la dottrina ci insegna come “non esista il costo di un prescelto oggetto di calcolo” (4),

  • può esistere – con riferimento a un determinato scopo/fine – un costo “strategicamente” corretto (5),

  • si è oramai consolidato un sistema produttivo orientato al cliente, anziché focalizzato sulla produzione,

è necessario chiarire in primis come una configurazione di costo porti con sé informazioni di tipo gestionale – generate dalla contabilità analitica – che, decodificate attraverso le metodologie di costing, orientano l’impresa a decisioni di tipo strategico; ciò sottende evidentemente una coerenza e un allineamento tra la prima e le seconde.

Le diverse “figure” di costo distinguono infatti tra quelle che si compongono dei soli fattori con un nesso di causalità diretto con l’oggetto di calcolo - come nel caso del costo primo variabile e del costo primo di produzione, che comprendono manodopera diretta, materie prime, costi variabili e fissi di trasformazione - e quelle in cui si stratificano componenti indirette legate alla produzione (costi fissi permanenti), alla struttura aziendale (quote di costi generali commerciali e amministrativi) e ai c.d. oneri figurativi (6), come nel caso del costo di produzione, del costo pieno aziendale, per finire col costo economico-tecnico.

Si comprende il perché alle prime due “a costo primo” sia associata la metodologia di costificazione c.d. a direct cost (semplice o evoluto, ove quest’ultimo accoglie in aggiunta solo i costi indiretti specifici riferiti all’oggetto), pervenendo al margine di contribuzione unitario e/o di prodotto, mentre alle altre tre si correli la metodologia a full cost, che sottende l’integrale assorbimento dei costi da imputare all’oggetto di calcolo.


A tal proposito vale peraltro la pena sottolineare come il direct cost, pur derivando da una configurazione “parziale” delle componenti di costo – ove i costi indiretti si considerano costi di periodo – in massima parte collocata nel Costo del venduto (7), pone “paradossalmente” grande enfasi proprio sulla componente di costi che solo apparentemente esclude, poiché la sua ragion d’essere sta nella conditio sine qua secondo cui ogni unità/quantità di prodotto contribuisce appunto alla copertura di detti costi indiretti in proporzione al Margine di contribuzione complessivo generato da ognuna di esse (per rafforzarne il concetto e a titolo puramente esemplificativo è bene ricordare che è ancora oggi uso nelle prassi aziendali di management calcolare il punto di pareggio c.d. break even point come rapporto tra i costi di struttura – o indiretti di natura non industriale – e il margine di contribuzione percentualizzato).


Da ciò si comprende agevolmente l’immediatezza e l’estrema oggettività del processo di costing attuato seguendo il metodo del direct cost, scelta attuabile nelle organizzazioni prescindendo dalla loro dimensione economica, com’è di tutta evidenza l’assoluta analiticità del full cost, i cui punti di forza sono l’aggregazione di tutte le componenti di costo intorno all’oggetto di calcolo e un’enfasi sull’efficienza dei fattori produttivi.


Di contro ci si trova innanzi a una metodologia che non può prescindere dall’individuazione di idonee basi di riparto, laddove spesso, e salvo una costanza nell’utilizzo della capacità produttiva interna, vi è la necessità di definirne più d’una, procedendo di conseguenza a un disaccoppiamento dei costi indiretti da ripartire in aggregati intermedi.

Altra dinamica è quella secondo qui il volume dei costi indiretti allocati varia in proporzione al variare della base di riparto scelta, da cui l’attenzione assoluta sulla selezione della/e base/i di riparto – a quantità o valore – su ore macchina, piuttosto che ore manodopera o sul volume acquisti di materia prima e comunque effettuata con criteri del tutto arbitrari.

È chiaro come il full cost privilegi maggiormente i volumi di produzione e rappresenti al contempo un eccellente indicatore di efficienza nell’impiego delle risorse, rivelandosi al contrario – e a parere di chi scrive – una metodologia “antistorica” in ordine all’evoluzione del tessuto produttivo e poco adattabile al sistema delle PMI, aspetto che al contrario è ravvisabile nel direct cost, che trae la sua efficacia proprio nella capacità di sapersi integrare meglio a quelle analisi di sensitività economico-finanziarie essenziali pro futuro alle imprese.



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(1) Intesa come la componente finale del processo di marketing, di cui fanno parte il marketing analitico e quello strategico.

(2) D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.

(3) Che tende a variare in direzione opposta ai principali indicatori del ciclo economico.

(4) A. Ceccherelli, Economia aziendale e amministrazione delle imprese, Barbera, Firenze, 1948, pag. 159-160.

(5) A. Bubbio, Amministrazione & Finanza Oro n.1/2007.

(6) La dottrina li individua come costi che l’azienda non sostiene finanziariamente e che rappresentano il compenso per l’attività dell’imprenditore (fitti figurativi, interessi di computo, stipendio direzionale).

(7) Aggregato del conto economico riclassificato a costo del venduto, inteso come somma algebrica di Rimanenze iniziali (-), Costo delle merci acquistate (-) e Rimanenze finali (+).

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